Edoardo Conoscenti

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edoardo.conoscenti@gmail.com

Autore | performer

Appassionato di arte e letteratura,

iscritto alla Scuola Holden di Torino

Quando ho tempo, fotografo e disegno

Diplomato al liceo linguistico, studio doppiaggio presso l’Accademia del Doppiaggio a Milano. Frequento per due anni l’università statale di Milano, facoltà di lettere moderne.

Lascio perché se dopo due anni non è amore, è meglio lasciar andare.

Produzioni

Se avessi avuto la possibilità di scegliere, non sarei nato lì. Calcolando l'umidità, la nebbia, la scuola troppo vicina a casa e la cameretta troppo piccola. Che io lo volessi o meno, però, la casa rosa arroccata zeppa di scale è dove si è indurita la pelle dei miei gomiti.

Appena l'ebbero vista, presentarono la proposta d'acquisto. Il gelsomino al posto dell'edera, così che si senta il suo profumo, così che copra le crepe della vernice rosa.

Ma quando papà non camminerà più, non l'avremo comunque goduta abbastanza.


Mimì


Ho visto Mimì sulle scale non scende non sale sta lì fermo: il vuoto a fissare. Gli faccio scusa Mimì che fai lì impalato ti serve una mano per caso? Risponde no, osservo e basta tu stammi alla larga vedrai che mi passa. Allora faccio finta di niente, riprendo la marcia e mi mischio alla gente. Ma un giorno è passato, lì sono tornato e sì, ne ero sicuro, Mimì è ancora lì che fissa il muro. Scruta con riguardo come se volesse staccare l’intonaco con lo sguardo. Stavolta voglio capire, capire che fa, gli dico almeno di stare più in là, la gente non riesce a salire e i pochi (non per offendere) che vorrebbero andare giù non riescono a scendere perché qui ci sei tu. Mimì, cazzo, fai spazio, non lo vedi che qui sei d’intralcio?

Non mi stressare, ribatte scocciato, voglio stare qui, pensare, rimuginare. Di salire mi sono stancato. Ma allora scendi, vai ritorna più tardi, inutile che stai qui a fare danni.

No, non mi va, e con un verso di stizza che mi allontana, mi giro sconvolto e ritorno a casa. A casa mi tremano le gambe sono agitato, non riesco a capire quel matto sfrontato, perché non segue la folla? Perché sta fermo con quella faccia di tolla?

Saranno fatti suoi questo è vero ma una cosa così è la prima volta che la vedo, sarò sincero, se lo becco un’altra volta mi parte lo sclero. E mentre, con un nervoso così, penso a Mimì che sta fermo, non mi accorgo, e mi addormento, e nei sogni cosa vedo? Io e Mimì, ma fatti di vetro.

Mi sveglio. Stavolta non c’è più tempo, bisogna levarlo da lì scongiurare il peggio. Di corsa, di corsa non mi fido, con l’ansia che monta e che sale mi reco alle scale e ancora prima di vederlo grido Mimì via da lì, via da lì prima di sera o ti trasformerai in bomboniera. Stavolta sorride, Gesù, allora mi avvicino di più mi affianco e guardo anch’io su.

Ecco cosa guarda sto matto! La crepa! Una crepa sinuosa che sembra di seta, continua morbida e si dirama e a seconda di come metti la scarpa ti giuro diventa una sciarpa.

Ho spalancato la bocca, mi sono bloccato e con la coda dell’occhio ho visto Mimì: si è allontanato.

Ci credete?

È così che rimasi per sempre a fissare le crepe.



Renato


Nato il 4 aprile dell'81 a Brembate di Sopra da mamma casalinga scorbutica e padre assente militare, viaggiava su un triciclo prima di imparare a camminare. Correndo per i filari delle campagne bergamasche, passò i primi anni senza rotelle in bicicletta e la merenda nelle tasche.

Crebbe di corsa, agitato, stralunato, eppure un ragazzo a modo ed educato. Rimase basso e magro come un chiodo. Sua mamma disse che era colpa della dieta, mangiava poco: ravioli in brodo e polenta con brasato. A quattordici anni, con la mamma che lo pregava di studiare dicendogli: ‘le gambe le hai già belle che sbucciate!’, prese il patentino, acquistò un vespino e trovò anche un amico, un cane.

Scappa adesso Renato, piega toccando i 70 col suo motorino truccato, torna a casa, riposa ed esce il giorno dopo ancora più eccitato.

Ma un giorno Renatino va in città e alla finestra del panettiere vede la Rosetta, la nipote del ferroviere, che gli lancia uno sguardo repentino, niente più.

Butta l'occhio, manco apposta, eppure non pensa ad altro che a quel suo vestito blu. Posa il casco, si tocca la pancia, capisce di star male e si dice: son malato, ripararmi quanto costa?

Va a letto a riposare senza niente aver capito, si sveglia in piena notte che nel sogno pareva avesse fatto a botte. Ancora tutto intontito si alza di scatto e dalla camera è già fuori. In cucina, colazione di traverso e un aspetto assai diverso, lui rabbuiato ma il cielo terso.

Renato impacciato non si capacitava del mal di pancia esagerato, prese la moto ma dimenticò il casco slacciato. A manetta e disperato da far ridere scivolò fino alla riviera ligure, ma lì arrivato guardando il mare lungo e le spiagge così piatte, si accorse di esser uscito persino in ciabatte. Di correre deve smettere. Trova una panca bianca e ci si accascia per riflettere. In sé di fretta deve tornare e solo un modo ha per riuscirci: guidare. Riparte e curva dopo curva passa il mal di pancia. Col sorriso e il buonumore ritrovato eccolo ancora Renato di nuovo spensierato. Accelera tra i limoni e gli oliveti che gli sembra di planare ma si dimentica del freno e finisce dritto a mare. Ci finisce lui con la sua vespa senza che nessuno lo potesse aiutare.

Si accorsero ore dopo di lui che non sapeva nuotare.

Recuperarono la vespa, solo giorni dopo trovarono al largo anche la testa.

Giorni d'attesa lì a Brembate dove riportarono il corpo del povero Renato tutto dai pesci divorato.


Il funerale alla legge di Dio fu conforme. C'eran tutti: il padre in uniforme, il prete lusinghiero, la mamma vestita di nero, persino il suo cane.

Tra la gente li accalcata c'era anche chi non lo conosceva.

Tra i tanti la Rosetta e ti assicuro che piangeva.



Nuova maglia


Fermo al semaforo c’è un autobus quasi vuoto che aspetta il verde. C’è uno da là dentro che mi fissa con due occhi allucinati. Ha una maglia a maniche corte blu elettrico, degli occhiali gialli, la crapa pelata e una bocca gigante. Dico sul serio, la sua è una bocca enorme. Mi continua a fissare, e più mi guarda, più sorride. Madonna, un altro pazzo, città ne è piena. Basterà aspettare il verde e se ne andrà via per sempre. Abbasso lo sguardo, metto le mani in tasca e aspetto. Mi chiedo come sia possibile che il semaforo sia rosso sia per me che devo attraversare, sia per il pullman che deve andare dritto, ma non mi va di buttarmi col rosso. Alzo di nuovo gli occhi e quello sta ancora là, inebetito. Vai via, diavolo. Poi finalmente ecco il mio verde, corro fino dall’altro lato e poco dopo sono arrivato. In orario, per fortuna. Il campo è sintetico, niente terra e sembrerà sempre di stare in un campo da calcio serio, ma basta guardare un po’ i compagni che trovo negli spogliatoi per capire che giocherà un calcio improvvisato. C’è uno alto che è scoordinato anche a mettersi i parastinchi, il classico difensore robusto, il bello di turno che le giocherà tutte, e già anche quello che sarà una frigna. Però ho voglia di uscire, di correre e di scaldarmi, che muoio di freddo ancora. La temperatura di queste seggiole di ferro dove appoggiamo il culo per cambiarci è glaciale. Mi vesto, indosso pantaloncini e tutto l’armamentario, penso a quanto sia bella la mia maglia dell’Arsenal, ma prima di trovarla nel borsone bussano alla porta, e sento il bello di fianco a me farfugliare qualcosa in non so che lingua, gli altri che si fanno tutti dritti e la smettono di prendersi per il culo. La porta si apre decisa e con lo stesso grosso canotto di labbra, gli stessi occhiali gialli di plastica e lo stesso sguardo folle c’è il tizio dell’autobus, che mi guarda ride di gusto e fa agli altri: ‘Nuova recluta!’, gridando. Io in imbarazzo abbasso lo sguardo e so che ho sbagliato, che non dovevo dare retta a mamma, non dovevo iscrivermi, città le persone sono conciate tutte così e penso che vorrei tornarmene al mio paesino. Il folle mi da’ una pacca, ci guardiamo negli occhi e mi stringe la mano. Con quel sorriso impazzito dice ‘Sono Giorgio Lavazzi, il mister!’. Tiene in mano una sfilza di magliette blu elettrico e me ne da un paio, consigliandomi di metterla da subito, anche per allenarmi. Mi fa l’occhiolino: ‘che così t’attacchi alla maglia!’.


ereditiamo cemento e confusione

solidarietà

Gioco

Domenica

Mi sono tagliato con la carta

sapore di ferro

dopo messa la ringhiera dei becchini

e il San Bernardo che sbavava


Al ponte, dopo tanti anni rivedo Tommaso

ti butti dice

magari

Vento

Hai la cataratta

e ciondolava per la strada ciottolata, finendo per appiccicarmi di granita.


Con i muscoli tesi tra la sabbia

senza nemmeno riuscire

a pisciare

se il mare ha le onde

Animazioni

Incipit

Fino alle olive


Mi svegliai e la sensazione era di un’avventura prematuramente interrotta. Quella notte, oltre all'insonnia e al brusio notturno, mi fece compagnia un sibilo costante tra le tempie, che non terminò prima che battessi la lingua sul palato mentre mi alzavo, prima che il sole fosse alto, prima che zio Mimì chiamasse per dirmi che nonna era morta. La partecipazione al funerale sarebbe stata più che gradita. Avrei dormito con Tommaso, nelle due brande separate dalla lampada e dal rosario dai grani dorati, nella stessa stanza rosa pallido dove si dormiva da bambini le notti di giugno. Arrivato a Palermo scoprii che poco avevo perso di lui, anche stando distanti. Mi disse che la vita si uniforma e si assomiglia. Nel sedile del guidatore si sforzava di stare diritto. Raccontò del suo lavoro, del diploma di sua figlia. Con la sua omelia si rassicurava di aver ritrovato un fedele, qualcuno che ascoltasse. Tacque solo quando i lati della strada si fecero scuri e un odore intenso e tostato arrivò alle narici, ed eravamo già allo svincolo di Cefalù.

Il paese, ad agosto, alita l’aria calda dalle mura, ti strozza anche all’ombra. Vestiti di nero, camminammo fino alla Matrice Vecchia; osservai il prete, canuto e macilento ma dalla pelle coriacea. La folla era piccola eppure invadente. A fatica dividevo curiosi e sofferenti. Zio Mimì, mio fratello e io formavamo la prima fila. Dei funerali nulla mi cattura, esclusa la litania dei santi, l’appello: anche oggi li convoca tutti. Fu un rito breve e sincero, con il rispetto che conviene ai proseliti più buoni. Uscimmo dal fresco della chiesa a testa bassa, tra chi lacrimava e chi esprimeva dolore con la riga della bocca. Rimanemmo soli io e Tommaso e seguimmo la strada per casa, dove finalmente tolsi il completo nero che mi irritava la pelle e il colletto bianco rigido che mi premeva contro il collo. Assetati bevemmo tanto da non mangiare.

Poche ore dopo ritrovammo zio Mimì all’incrocio, dove iniziava la strada sterrata. Ci aspettava all’ombra d’un ulivo. Indossava una canottiera bianca con il portamento che avrebbe meritato una divisa. Ci volle mostrare quello che restava del terreno e quelle quattro mura ormai senza forma, cotte dal sole. La contrada sembrava abbandonata tutt’intera, e pareva che dalla campagna di nonna a San Mauro, lassù, in cima al monte, non si sarebbe incontrato nessuno.

Parlò per primo Tommaso: - Che ci conviene fare, Mimì? Vendiamo?

- Non conviene, - rispose zio Mimì, continuando a spaccare con le scarpe vecchie la terra riarsa, che era crepata e sotto le suole scrocchiava - la curo io finché ho forza, almeno fino alle prossime olive.

Io e Tommaso ci guardammo e feci finta di intenderlo. Poi salii a memoria fino all’albero di limone, prima delle pale dei fichi, prima di quello che rimaneva della recinzione. Lì guardai, trovai un piccolo varco e mi sporsi oltre, ricordando del piccolo fiume, ora in secca.

Sentii il bisogno di andare a cercare, così gridai a Tommaso, che stava ancora giù con Mimì. Salì al limone, vide il letto asciutto del fiume e si agitò, come se avesse bisogno di andare a pisciare. Arrivammo a fatica lì dove l’acqua in autunno solca l’argilla. Continuammo in silenzio, e Tommaso si assicurò che anche io ricordassi, quando sorridendomi disse: - Vincevi sempre tu.

Eppure in me era vivido il ricordo che vincesse sempre lui, che io da buon fratello minore tornassi ogni volta sconfitto dalla corsa, che arrivassi a toccare sempre per ultimo il grande sughero. Scorsi laggiù solo ulivi e qualche frassino e tutt’intorno nient’altro che macchia.





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Cofondatore, collaboratore, editor della rivista Interiorume, nata a marzo 2023

Nell’estate 2020 ho scritto la raccolta di poesie ‘été’

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